sabato 27 agosto 2011

Fumo ed eufemismi

Alessandro Manzoni osserva che l’eufemismo è una figura ipocrita. Come non convenire? Il linguaggio è oggi più che mai snaturato da accorgimenti retorici: oltre all’eufemismo ed alla sua ganza, la litote, i discorsi sono costellati di espressioni sdolcinate e lievi idonee a smussare gli spigoli di una dura realtà, quando non servono a coprirla di spessi drappi.

I combattenti che sono massacrati su un fronte “sono caduti”. Sì, sono caduti per non rialzarsi più. Disgustosa è l’enfasi intrisa di ipocrisia, radicata sovente in una tradizione letteraria ampollosa e patriottarda: “E dimani cadrò”, scrive Giosuè Carducci in una sua celebre lirica. “Cadrò”, non “morrò”. E’ anche il tabù nei confronti della morte.

Glorificati ed elevati ad eroi, i soldati sono carne e sangue. La carne è da cannone. Il loro sangue è inchiostro con cui vergare solenni proclami, trasudanti unta eloquenza, in stile Napo Orso Capo, vero maestro della simulazione più gesuitica, le cui allocuzioni sono fimo fumante.

Se durante i due conflitti mondiali i coscritti cadevano durante un eroico attacco o l’altrettanto eroica difesa del suolo patrio, oggi i volontari che sono dilaniati da un ordigno in Afghanistan, cadono nel corso di una missione di pace. La guerra è diventata, con ossimoro che supera la stessa frode linguistica di Agostino, “umanitaria”. I bombardamenti sono “chirurgici, le bombe “democratiche”.

L’impostura lessicale si abbatte soprattutto sugli animali, questi oggetti che valgono meno degli oggetti. Quando un cavallo si è azzoppato in modo grave, viene abbattuto. I capi di bestiame, colpiti da un’epidemia, sono abbattuti, non uccisi. Sono muri che si abbattono, ergo cose. In questo ambito forse fermenta un oscuro senso di colpa, lo stesso senso di colpa che spingeva gli antichi Greci ad ornare con bende le corna del toro votato al sacrificio, destinato a dei assetati di sangue. Almeno, prima di procombere sotto la scure del sacrificante, il toro si sentiva al centro dell’attenzione. Furono le caste sacerdotali ad istigare le carneficine animali, persuasi a loro volta da “dei” carnefici. E’ incontrovertibile: il sacerdote è letteralmente colui che compie le azioni sacre, ma “sacer” vale anche “terribile”, “esecrando”. La lingua, denudata dei suoi insinceri paludamenti, manifesta l’orrore di certe contraddizioni.

Abraham non dovette sacrificare il figlio Isaac, ma immolò un montone. E’ sempre un’uccisione, anche se molti la giudicano veniale.

Che cosa pensare del verbo “fare” sempre impiegato per riferirsi alle vittime causate da una guerra, una calamità, un incidente, una strage di stato? “L’attentato ha fatto undici morti”. Il verbo anodino per eccellenza diluisce in una grisaille la tragedia della morte per consegnarla alla mercificazione degli uomini: la produzione tanatologica è allineata alle altre produzioni. Gli eventi mortali sono catene di montaggio… ben oliate. [2]

Un altro settore deturpato dalla falsità eufemistica è l’economia: le tasse sono “contributi”; i prezzi di prodotti e servizi non vengono aumentati, ma “rimodulati”. Salari, stipendi e pensioni non sono tagliati, bensì “ridefiniti”. L’età per il collocamento a riposo non è elevata, ma “adeguata alle aspettative di vita”.

Le scuole non sono soppresse o unite, ma “la loro distribuzione sul territorio è ispirata a princìpi di razionalizzazione”. Le risorse non sono decurtate, bensì “ottimizzate”. I finanziamenti non sono ridotti, piuttosto “assegnati secondo criteri funzionali alle reali esigenze”. Se un insegnante viene a sapere che l’offerta didattico-educativa “sarà valorizzata attraverso una razionalizzazione”, significa che avrà una classe di 35 allievi! Il linguaggio della didattica rigurgita di leziosi eufemismi e di diciture tanto comiche quanto altisonanti. Gli obiettivi del piano didattico sono ormai la “mission d’istituto” (sic); il fine di un’attività è il “focus”; la fase di una procedura è lo "step"; la preparazione di base degli studenti è l”’imput” (con la m!) e ridicolaggini simili su cui è meglio non soffermarsi.

Campioni di lingua bastarda sono, come è noto, i giornalisti o sedicenti tali, ma con codesta genia di beoti rivaleggia la stirpe degenere dei sindacalisti, il cui idioletto è un non-linguaggio, un vuoto pneumatico, il nulla divenuto un brusio. I sindacalisti sono imbonitori, parolai: se non esalassero il fumo dei loro discorsi, sarebbero invisibili.

Ci emanciperemo mai dall’ipoteca dell’eufemismo e dalla mistificazione linguistica? Si avvererebbe un sogno, se un dì potessimo seguire un notiziario o leggere un quotidiano in cui la lingua fosse usata in modo cristallino ed onesto. Una lingua di questo tipo, però, presuppone una coscienza altrettanto cristallina ed onesta. Dunque la vedo grama.

[1] Laura Bossi, nel saggio “Storia naturale dell’anima”, 2003, ricorda che “in occasione dei massacri di animali perpetrati in Europa, durante l’epidemia epizootica, è apparso nel linguaggio degli allevatori, per indicare l’uccisione, il termine ‘smaltimento’, come si direbbe di una merce avariata”.

[2] Ben venga, però, il verbo “fare” quando ne abusa Paolo Cattivissimo: si acconguaglia ad uno che è completamente... fatto. Absit iniuria verbis.

Articolo correlato: Freeanimals, 41 eroi caduti finora per la democrazia, 2011

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